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Reincarnazione: tre casi a sostegno
23 Ott 2012

Reincarnazione: tre casi a sostegno

Post by Administrator

Per quanto la credenza nella reincarnazione non appartenga alla cultura e alle tradizioni del mondo occidentale, sempre più persone affermano di credere nella trasmigrazione delle anime. Il prof. Ian Stevenson ha dedicato la vita allo studio di tale fenomeno. Ecco tre casi, tratti dai suoi libri, che testimonierebbero a favore dell’esistenza della reincarnazione.  

Il ciclo del Samsara

Il ciclo del Samsara

Posto dinanzi al problema della morte e al carattere ineluttabile della propria distruzione fisica, l’uomo ha formulato tre grandi ipotesi:

1. La morte segna una fine categorica e totale. L’interruzione delle funzioni vitali comporta automaticamente la scomparsa dei processi mentali. L’individuo viene annientato. Le molecole del suo corpo si decompongono e gli atomi si disperdono in natura. Si tratta della classica posizione materialistica “io credo ciò che vedo“. Tale teoria presenta l’inconveniente, quando pretende di erigersi a sistema, che io non vedo mai la mia propria morte. Posso vedere quella degli altri, non la mia. Si tratta quindi di un punto di vista esteriore e non di un’esperienza personale. D’altronde è stranamente paradossale la pretesa di accedere ad una verità definitiva e assoluta (morte = nulla) servendosi di una mente destinata a perire e quindi relativa e limitata. Si rischia di cadere in un circolo vizioso del tipo: “E’ vero che non esiste verità alcuna“.

2. L’uomo possiede un’anima individuale immortale che sarà punita o ricompensata in funzione delle azioni compiute durante il suo passaggio terreno. Complessivamente e schematicamente è questo il punto di vista delle tre grandi tradizioni bibliche: giudaismo, cristianesimo ed islam. Questa posizione solleva un certo numero di problemi spinosi e quasi insolubili: con quali criteri saranno giudicati i bambini morti in tenera età? Come conciliare l’idea di un Dio amorevole e giusto con l’inesorabile sofferenza di quanti nascono e vivono in disperate condizioni d’alienazione, handicap fisici o mentali, miseria, ambiente corrotto, etc? Se la misericordia divina deve infine assolverci tutti, perché sottoporci a simili prove? Perché infliggerci tante sofferenze? Inoltre è poco soddisfacente immaginare che la propria sorte sia decisa per l’eternità dopo un’unica e così breve incarnazione.

3. La terza ipotesi propone per la nostra anima immortale la prospettiva di un viaggio illimitato nello spazio e nel tempo. Attraverso innumerevoli forme e contesti, il principio spirituale imperituro prosegue la sua esistenza, cambiando corpo e vita un po’ come un attore cambia ruolo, costume e scena. Si tratta di una visione eccezionalmente ritmica dell’universo, in cui la successione dei periodi di incarnazione e di morte corrisponde a fasi d’attività e di riposo, paragonabile all’alternanza tra la veglia ed il sonno, l’inspirazione e l’espirazione, l’espansione e la contrazione o, per usare un linguaggio più astratto, la manifestazione e la non-manifestazione.

Nel corso degli ultimi decenni alcuni ricercatori hanno messo insieme, confrontato e verificato centinaia di fatti e di esperienze riguardanti la reincarnazione. Quest’insieme forma un dossier inquietante e spesso anche sorprendente. Tuttavia bisogna ammettere che in questo campo non esistono prove assolute e definitive. Anche i casi più convincenti possono essere spiegati con ipotesi che rientrano nell’ambito della parapsicologia, della telepatia, della possessione, etc.

Osserviamo semplicemente che esiste un considerevole fascio di supposizioni che testimoniano a favore della reincarnazione. Sul terreno dell’indagine strettamente scientifica non è possibile arrivare ad una certezza irrefutabile, ma solo ad una seria probabilità. In ultima istanza, la risposta essenziale risiede nel fondo di noi stessi, al di  là di un’indagine storica o una dimostrazione logica.

Professore di psichiatria della Virginia, negli Stati Uniti, il dottor Ian Stevenson ha studiato sul posto innumerevoli avvenimenti con una pignoleria da detective. Alcuni dei suoi lavori sono stati pubblicati in un’opera intitolata “Twenty suggestive cases of reincarnation” (Reincarnazione: venti casi a sostegno). Rievocheremo qui tre di queste storie che si sono svolte in medio oriente cioè in un contesto islamico ostile a priori alla dottrina della reincarnazione. Le testimonianze risultano quindi più interessanti.

Caso 1 – Quando ero Cheik Maruf

Emrullah Turhan nacque nel 1949. Verso i due anni, appena cominciò a parlare, affermò di avere dei ricordi precisi di una precedente esistenza e indicò il suo antico nome: Cheik Maruf. Nel 1954 il padre di Emrullah, proprietario terriero, assunse una coppia di contadini per lavorare in fattoria. Ebbene, si scoprì che costoro conoscevano molto bene un certo Cheik Maruf morto nel 1948. Incuriositi dalle dichiarazioni del fanciullo, lo incalzarono con domande: come si chiamava la moglie di Cheik Maruf? Quanti figli aveva? Tutte le risposte di Emrullah risultarono esatte: “Ho avuto quindici figli, 10 ragazzi e cinque ragazze“. Ed enumerò i quindici nomi senza sbagliarsi. “Mia moglie“, dichiarò ancora, “aveva un segno particolare: un neo sulla guancia destra“. Il dettaglio si rivelò perfettamente vero.

Alcuni anni dopo il giovane incontrò un colonnello dell’armata turca. Durante le presentazioni di cortesia, disse all’ufficiale: “una volta avete prestato servizio ai miei ordini quando ero Cheik Maruf“. E ricordò allo sbalordito colonnello le loro antiche campagne, i pericoli affrontati in comune, e anche le circostanze precise di un incidente in cui avevano corso il rischio di perire insieme. Il professor Doksat, direttore della clinica psichiatrica della Facoltà di Medicina di Istanbul, ha condotto su questo caso di reincarnazione un’indagine approfondita, parallela a quella del dottor Stevenson. Egli organizzò un confronto tra Emrullah e uno dei figli di Cheik Maruf, membro del parlamento turco. Appena in presenza del deputato, la cui vera identità gli era stata nascosta, il giovane lo riconobbe, lo chiamò per nome e rievocò numerosi particolari intimi conosciuti soltanto dal defunto Cheik e dalla sua famiglia!

Caso 2 – L’autista di camion

Kornayel è un piccolo villaggio abitato dalla comunità drusa del Libano. Qui nacque Imad Elawar nel 1958. A due anni, nel corso di una passeggiata in campagna con la nonna, il bambino si buttò letteralmente su un estraneo per abbracciarlo. “Nella mia ultima vita“, spiegò allo sconosciuto interdetto, “eri mio vicino“. Poco dopo il fanciullo cominciò a fornire alcuni particolari: il suo antico cognome era Bouhamzi e abitava a Khribi, un villaggio di montagna situato ad una trentina di chilometri da Kornayel. Due nomi gli ritornavano di continuo in bocca: Mahmoud e Jamila, della quale parla come di una donna magnifica. Egli affermava di aver assistito un giorno ad un terribile incidente, nel corso del quale un uomo era stato buttato a terra e stritolato da un grosso camion.

Qualche mese più tardi i genitori di Imad appresero che lo sconosciuto incrociato per strada e salutato con tanto calore dal fanciullo era un abitante di Khribi. Terribilmente turbato, il padre si persuase che il figlio, durante una precedente esistenza, effettivamente aveva vissuto in quel borgo. La sua convinzione era ferma: Imad era sicuramente la reincarnazione di un certo Mahmoud Bouhamzi, morto schiacciato da un camion e con una moglie di nome Jamila.

Poco dopo egli si recò a Khribi, cercando invano le tracce della famiglia Bouhamzi, e così Imad, che aveva compiuto nel frattempo cinque anni, passò di colpo per un mitomane. L’indagine venne seriamente ripresa nel 1964 dal dottor Stevenson, il quale scoprì che un certo Said Bouhamzi era vissuto in effetti a Khribi un quarto di secolo prima. Costui era deceduto nel 1943 ucciso da un camion, però non esisteva alcun punto in comune tra la biografia di quel Said e le numerose descrizioni di Imad riferite alla sua vita anteriore. L’antica casa di Said, per esempio, non somigliava per nulla a quella che il fanciullo dipingeva nelle sue visioni.

Proseguendo le sue indagini, Stevenson riesumò un altro personaggio, cugino e amico di Said: Ibrahim. E tra il racconto di Imad e la biografia di Ibrahim la concordanza si rivelò prodigiosa. Ibrahim era un autista di camion. Said, che era per lui come un fratello, era stato travolto sotto i suoi occhi da un altro camion e quell’orribile incidente l’aveva profondamente segnato. Egli aveva uno zio di nome Mahmoud che esercitava su di lui un’influenza determinante. Ibrahim non godeva di buona reputazione perché viveva in concubinaggio con la sua padrona Jamila. Questo legame aveva provocato la violenta riprovazione della piccola comunità e così costei, alla morte dell’amante nel 1949, era stata cacciata dal villaggio.

L’indagine rivelò anche che l’abitante di Khribi riconosciuto per strada da Imad era stato un tempo il vicino di Ibrahim. Stevenson sottopose il fanciullo a un interrogatorio sistematico e prese in esame 70 risposte precise riguardanti aspetti intimi e concreti della precedente esistenza. 65 di queste informazioni si rivelarono di sorprendente esattezza. L’americano si recò a Khribi e visitò, in compagnia di Imad, la vecchia casa di Ibrahim che era rimasta vuota e chiusa dopo la scomparsa. Il ragazzo dunque non l’aveva mai vista dall’interno. Ebbene, egli descrisse minuziosamente la disposizione dei locali e la mobilia. Arrivò perfino a indicare il nascondiglio in cui Ibrahim riponeva il suo fucile da caccia, un’arma a due canne!

Caso 3 – La cicatrice dalla nascita

Il terzo caso di reincarnazione è particolarmente strano perché apre impressionanti prospettive per quanto concerne l’azione della memoria profonda sullo sviluppo stesso del corpo. Abdullah Dogru nacque in una piccola località dell’Anatolia nel 1965. Appena in età di parlare, egli affermò di chiamarsi non Abdullah, ma Nevfel, figlio di Yahia Dommez e nipote di Ali Dommez, del villaggio di Cilli. Raccontò di essere morto accidentalmente a causa di un colpo di fucile vagante mentre si divertiva con un gruppo di compagni nei pressi di un fiume. Aveva esattamente quindici anni.

L’indagine seguente ha consentito di verificare il racconto di Abdullah e di ricostruire per intero la vicenda. Nevfel Dommez è stato effettivamente ucciso da un colpo di arma da fuoco al ventre all’età di quindici anni nelle circostanze descritte dal piccolo Abdullah. Incredibilmente, quest’ultimo presenta sul ventre, dalla nascita, una larga cicatrice. Il rapporto medico conferma che quel segno somiglia del tutto ad una traccia d’una ferita d’arma da fuoco. Il fanciullo è stato messo a confronto con quelli che egli ha indicato come il padre ed il nonno della sua precedente incarnazione. Appena si è trovato in loro presenza, li ha subito riconosciuti, si è gettato fra le loro braccia rievocando diversi avvenimenti privati riferiti all’intimità familiare dei Dommez che non poteva in alcun modo conoscere!

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